sabato 15 febbraio 2014

La tonalità fantasma nella mazurka del piccolo ebreo


Un strana atmosfera si crea al diffondersi nell'aria della Mazurka op. 17 n. 4 di Chopin. In La minore, forse.

Cosa provoca tutto quel senso di sospensione per diverse battute all'inizio del brano?

Quando lo compose nel 1924, pare che Chopin gli avesse dato il titolo "Zydek" ("il piccolo ebreo"). Era l'unico titolo che diede ad un suo brano, ma fu eliminato da lui stesso prima di pubblicarlo e il riferimento era ad una storiella non troppo divertente, forse anche un po' razzista. Ma il riferimento all'ebreo è certamente utile per comprendere l'esotismo di certe scelte armoniche e melodiche.

La scrittura è talmente matura da rendere difficile credere che il nucleo fondamentale del pezzo sia stato concepito da un -sia pure talentuoso- quattordicenne del primo Ottocento, quando Beethoven componeva gli ultimi quartetti e le 6 Bagatelle.

Se analizziamo gli accordi alla mano sinistra delle prime 20 battute ci accorgiamo che sono tutti primo o secondo rivolto di qualche accordo che non è mai quello della tonalità d'impianto La minore, anzi a volte sono tonalità molto lontane da essa, e quando al basso per la prima volta alla battuta 13 resta un La solitario non è per l'accordo di La minore in stato fondamentale, ma come secondo rivolto di Re minore: ci illudiamo di essere arrivati alla tonica dopo gli accordi sulla dominante alle battute 11-12, ma veniamo sviati per altre 7 battute.

La tonica la afferriamo solo alla battuta 20, dopo una dominante - col basso in ottava - talmente esplicita da suonare quasi volgare, amplificata anche dal pedale.

E poi c'è anche la melodia, mai veramente definita o definitiva, essa è da suonare sotto voce, come qualcosa da riferire trattenuti, con pudore, come inconsapevoli di un meschinità di cui si dovrebbe avere vergogna, con abbellimenti variabili e variati ogni volta che la si ripropone, per l'esecutore è persino difficile ricordare quale variante vada eseguita prima e quale dopo, sembrano capricci borghesi, leziosi, assecondati dai ritardi negli accordi, fastidiosi come certi stereotipi di donnine dei salotti ottocenteschi, superficiali, o indifferenti, sempre languenti se non addirittura malate, magari di depressione, magari di tisi. Lo stesso frammento di melodia può essere così
o così

 o ancora con slanci come questo
o questo


ma il contenuto è sempre lo stesso e se il modo di presentarlo è così volubile, indifferente, esso evidentemente esprime in realtà più un vuoto di contenuto, e anche gli slanci paiono ipocriti (chi può credere a quel delicatissimo o a quel La bemolle?)...

Nella sezione B (La maggiore) c'è invece per contrasto - come è tipico della logica usata da Chopin nelle Mazurke - un trattamento dell'armonia che invece sfrutta quanto di più popolare e allo stesso tempo stabile si potesse escogitare in musica: un bordone di una quinta vuota (La-Mi), proprio quello di strumenti popolari, come cornamuse, musette, pive, ecc... è come se veramente l'ebreuccio o il borghese guardasse, scostando una tendina ricamata, fuori dalla sua finestra e vedesse la vita concreta che scorre per strada, tra i popolani... la melodia è piuttosto banale, ma quella "banalità" è il prezzo da pagare per avere in cambio un'armonia solidissima e a seguito di quella prima sezione tutto ora ci pare qui sublime, liberatorio, vero.

Una scrittura armonica simile a quella dell'inizio si trova anche nel preludio op. 28 n. 7 in Mi minore (del 1831-38):

ma in quel brano, pur restando quel senso di sospensione dovuto alla natura degli accordi (anche lì prevalentemente rivolti), la fissità, la staticità, la risolutezza delle lunghe note della melodia senza abbellimenti affettati, insieme ad un ritmo (non ternario di danza, ma puntato, quasi una lenta marcia), gli conferiscono un tono rassegnato ma di una dignità eroica: mentre gli scheletri armonici si evolvono in modo ambiguo la voce resta salda, come una parete illuminata da una luce cangiante.

L'atmosfera della Mazurka op. 17 n. 4 viene perfettamente colta dal regista Ingmar Bergman che la adopera nel film "Sussurri e grida" del 1972. Dopo averlo visto sembra inevitabile che quella musica suoni diversa, come se anche lei fosse malata, ma di una malattia non fisica quanto morale, che fa riferimento a qualcosa di profondo del nostro subconscio, qualcosa che manifestiamo agli altri ma che non diciamo a noi stessi...

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