lunedì 10 ottobre 2011

Un pellegrinaggio da Beethoven. Una novella di Richard Wagner

Richard Wagner
Ludwig van Beethoven
Un pellegrinaggio da Beethoven
di Richard Wagner

Miseria ed angoscia, tu dea protettrice del musicista tedesco, qualora egli non sia divenuto maestro di cappella in qualche teatro di corte, - miseria ed angoscia, anche in questo ricordo della mia vita ti sia reso subito il primo, più glorificante omaggio! Lasciati celebrare, o perseverante compagna della mia vita! Tu mi hai aiutato sempre fedelmente e non mi hai mai abbandonato; ognora hai allontanato da me con forte mano sorridenti vicende felici, ognora mi hai difeso dagli sguardi, fiammeggianti e molesti, di Fortuna! Con nera ombra mi hai sempre celato i beni vani di questa terra; sii ringraziata per la tua instancabile affezione! Ma, se è possibile, cerca di trovare, forse col tempo qualche altro protetto, perché, solo per curiosità, vorrei ben provare una volta come si potrebbe vivere anche senza di te. Almeno, ti prego di torturare in modo tutto speciale i nostri agitatori politici, quei forsennati, che ad ogni costo vogliono riunire la Germania sotto uno scettro solo:- ma vi sarebbe allora un unico teatro di corte, e quindi un sol posto di direttore d'orchestra! E che ne sarebbe allora dei miei sogni dorati, delle sole speranze, che già adesso mi sfumano dinnanzi pallide ed incerte – ora, che i teatri di corte, tedeschi, ve n'ha tanti? - Però, me n'avvedo, sto diventando temerario. Perdona, o dea protettrice, il desiderio empio, or ora espresso! Del resto, tu conosci il mio cuore, e sai come ti sono devoto, e come lo sarò sempre, anche quando in Germania vi fossero mille teatri di corte! Amen!
Prima di questa mia orazione quotidiana non mi accingo mai a nulla, quindi neanche a metter giù il racconto del mio pellegrinaggio da Beethoven.

Per il caso però, che questo importante atto avesse a venir pubblicato dopo la mia morte, stimo ancora necessario di dire chi sono, perché, senza di ciò, probabilmente rimarrebbe oscuro molto in seguito. Sappiate quindi, mondo, ed esecutori testamentari!
Una mediocre città della Germania centrale mi diede i natali. Non so più bene a che cosa mai mi si avesse destinato; solo ricordo che una sera intesi per la prima volta una sinfonia di beethoven, che in seguito a ciò fui preso dalla febbre, che caddi ammalato, e che , quando fui nuovamente guarito, ero diventato musicista. Ed a questa circostanza si deve probabilmente che, se anche col tempo imparai a conoscere altra musica bella, pure ho sempre amato, venerato, adorato Beethoven sopra ogni altra cosa del mondo. Non conoscevo più altra gioia che quella di trasportarmi, con tutta l'anima mia, nella profondità di quel genio, finché da ultimo mi figurai di esserne diventato una parte, e come tale minima particella cominciai ad avere considerazione di me stesso, a formarmi concetti e modo di vedere più elevati; brevemente, a diventare quello che i saggi sogliono chiamare “un matto”. La mia pazzia era però di una specie molto bonaria e non nuoceva ad alcuno; il pane che mangiavo in tal condizione era molto asciutto; la bevanda che bevevo molto annacquata, poiché il dar lezioni non rende molto, da noi, o pregiato mondo ed esecutori testamentari!
Così vissi qualche tempo nella mia cameretta in soffitta, quando un bel giorno mi venne in mente che l'uomo, le cui creazioni veneravo sopra ogni altra cosa, viveva tuttora. Mi riusciva incomprensibile come mai non vi avessi pensato prima. Non mi era venuto in mente che Beethoven esistesse, che potesse mangiar pane e respirare aria come uno qualunque di noi: eppure questo Beethoven viveva a Vienna, ed era anche lui un povero musicista tedesco!
Da quel momento la mia quiete era andata! Tutti i miei pensieri si riducevano al solo, ansioso desiderio: di vedere Beethoven! Mai un musulmano potè desiderare più fanaticamente di recarsi in pellegrinaggio alla tomba del suo profeta, che io alla cameretta in cui abitava Beethoven.
Ma come fare per poter eseguire il mio proposito? Sino a Vienna il viaggio era lungo e vi occorreva del danaro; io, povero diavolo, guadagnavo appena quanto bastava per vivere. Bisognava quindi escogitare dei mezzi straordinariper procacciarmi il denaro necessario al viaggio.
Portai intanto all'editore alcune sonate per pianoforte che avevo composto sul modello del maestro, ma quegli mi fece comprendere, con poche parole, che ero un matto con le mie sonate; mi diede tuttavia il consiglio che, se, col tempo, avessi voluto guadagnare qualche scudo con composizioni, avrei dovuto cominciare col farmi un piccolo nome con galoppi e potpourris... Rabbrividii, ma l'ansia indicibile di vedere Beethoven vinse; composi dei galoppi e dei potpourris, ma durante tutto quel tempo non ebbi mai il coraggio, per vergogna, di alzare lo sguardo verso Beethoven, perché temevo di compiere un sacrilegio.
Per mia disgrazia però questi primi sacrifici della mia innocenza non mi vennero neanche pagati, perché il mio editore mi disse che, prima, avrei dovuto farmi un piccolo nome. Rabbrividii di nuovo e caddi in disperazione.Questa disperazione riuscì pertanto a produrre alcuni galoppi eccellenti. E davvero – ottenni del denaro; finalmente mi parve di aver radunato quel tanto che mi bastava per realizzare il mio sogno! Erano nel frattempo trascorsi due anni, durante i quali avevo temuto sempre che Beethoven avesse a morire prima che io, con galoppi e potpourris, mi fossi fatto un nome. Grazie a Dio, egli era sopravvissuto allo splendore del mio nome! San Beethoven, perdonami quella fama:fu guadagnata per poter vedere te!
Ah, che gioia! La meta era raggiunta. Chi poteva essere più beato di me? Non avevo che a legare il mio fardello ed incamminarmi verso Beethoven. Un sacro brivido mi prese quando, uscendo dalle porte della città, mi rivolsi al meridione. Ben volentieri mi sarei seduto, lo confesso, in una diligenza, non per schivare gli strapazzi dell'andare a piedi (oh, quali sofferenze non avrei lietamente sopportato a tale scopo!), ma perché in quel modo sarei giunto più presto a Beethoven. Ma per poter pagare il posto in carrozza avevo fatto ancora troppo poco per la mia fama di compositore di galoppi. Onde mi rassegnai a tutte le difficoltà, e mi dissi ancora fortunato di essere già al punto di poterle sormontare tutte sino alla meta. Oh, che entusiasmo, che sogni! Un innamorato che, dopo una lunga separazione, ritorna dall'amata della sua gioventù, non potrebbe essere più felice!
Ed entrai così nelle bella Boemia, nel paese dei suonatori d'arpa e dei cantanti di strada. In una piccola città trovai una compagnia di musicanti girovaghi: formavano una piccola orchestra, composta da un contrabbasso, da due violini, due corni, da un clarino e da un flauto; inoltre vi erano un'arpista e due cantanti con belle voci. Suonavano danze e cantavano canzoni; si dava loro del denaro ed essi proseguivano il viaggio. Li incontrai di nuovo in un bel posticello ombreggiato preso la strada maestra; si erano là accampati a far colazione. Mi unii a loro, dissi che anche io ero un musicista in viaggio, e in breve divenimmo amici. Siccome suonavano danze, chiesi timidamente se suonavano già anche i ballabili miei. Che brava gente! Non conoscevano i miei galoppi! Oh, quanto bene ciò mi fece!
Domandai se non facevano anche altra musica, oltre a musica da ballo. - Ma certo! - risposero. - Però solo tra noi, e non dinanzi a gente distinta.
Tirarono fuori il loro repertorio: vidi il grande settimino di Beethoven; stupito domandai se suonavano anche quello. - Perché no? - replicò il più vecchio di loro. - Peccato che Giuseppe abbia proprio male ad una mano e che non possa suonare per il momento il secondo violino, se no potremmo farcene un godimento subito.
Fuori di me, afferrai di slancio il violino di Giuseppe, promisi di sostituirlo con tutte le mie forze e cominciammo il settimino.
Che delizia! Qui, presso una strada maestra della Boemia, sotto il libero cielo, il settimino di Beethoven, suonato da musicanti girovaghi, con una purezza, con una precisione, con un sentimento così profondo, come di rado si sente dai più valenti virtuosi! Grande Beethoven, ti offrimmo un degno sacrificio!
Eravamo proprio al finale, quando – la strada in quel punto si volgeva in salita – si avvicinò lentamente e senza rumore un'elegante carrozza da viaggio, che venne a fermarsi silenziosamente presso di noi. Un giovine signore, meravigliosamente lungo, meravigliosamente biondo, se ne stava sdraiato sui cuscini, ascoltando con alquanta attenzione la nostra musica: poi tirò fuori un portafogli, lo aprì ed appuntò alcune parole. Da ultimo lasciò cadere dalla carrozza una moneta d'oro e fece proseguire, rivolgendo al suo servitore poche parole in inglese, da cui potei arguire che doveva essere un inglese.
Quest'incidente ci turbò: fortunatamente eravamo giunti a terminare il nostro settimino. Abbracciai i miei amici e proposi di continuare il viaggio insieme, ma essi mi dichiararono che da lì in poi avrebbero abbandonato la strada maestra, avendo l'intenzione di far ritorno, questa volta al loro paesello natio, e mi mostrarono un sentiero campestre che là li avrebbe condotti. Se non fosse stato proprio per Beethoven, proprio lui, che mi aspettava, certamente li avrei accompagnati anche là. Così invece ci separammo commossi e ciascuno andò per la sua via. Più tardi mi venne in mente che nessuno aveva raccolto la moneta d'oro dell'inglese.
Nella prossima locanda, nella quale entrai per ristorare le membra, trovai seduto a lauto pranzo l'inglese. Mi osservò a lungo: finalmente mi si rivolse con un tedesco passabile: - Dove sono i suoi colleghi? - domandò.
 - Si sono avviati a casa loro – risposi.
 - Prenda un po' il suo violino e mi suoni qualche cosa d'altro – continuò; - tenga qui del denaro.
Questo mi seccò; gli spiegai che non suonavo a pagamento, che d'altra parte non avevo neppure violino, e gli esposi in breve come ero capitato assieme a quei musicanti.
- Erano buoni musicanti – seguitò l'inglese, e la sinfonia di Beethoven era pure molto buona.
Questa osservazione mi colpì; gli chiesi se anche lui faceva della musica. - Sì, - mi rispose – suono due volte alla settimana il flauto, il giovedì il corno da caccia, e la domenica compongo.
Era molto, in verità; ne fui meravigliato. Non avevo, in tutta la vita, udito mai nulla di musicanti girovaghi inglesi, e trovai che dovevano passarsela molto bene, se potevano permettersi tanto lusso nel compiere i loro viaggi. Domandai se fosse musicista di professione.
Per lungo tempo non ottenni risposta alcuna; alla fine disse, assai sommesso, che egli possedeva molto denaro.
Il mio errore mi fu palese, perché evidentemente lo avevo offeso con la mia domanda. Tacqui mortificato e mangiai la mia frugale colazione.
Ma l'inglese, che di nuovo mi aveva fissato lungamente, riprese a domandarmi:-  Conosce Ella Beethoven?
Risposi che non ero ancora mai stato a Vienna, e che proprio era mia intenzione adesso di recarmi a quella città, a fin di soddisfare al più caldo desiderio che nutrivo, di vedere cioè il venerato maestro. - Donde viene? - domandò oltre.
 - Da L...
 - Non è lontano! Io vengo dall'Inghilterra e voglio pure conoscere Beethoven. Ne faremo la conoscenza entrambi; è un compositore molto rinomato!
Che strana coincidenza! - pensai fra me. - Sommo maestro, che gente diversa non attrai tu! A piedi ed in carrozza si viaggia alla tua volta! Il mio inglese cominciava ad interessarmi; confesso però che lo invidiavo poco per la carrozza. Mi pareva quasi che il mio penoso pellegrinaggio a piedi fosse più santo e più devoto e che il conseguimento dell'ideale comune dovesse rendere più felice me che non lui che vi si recava con superbia ed alterigia.
Ad un tratto il postiglione suonò il suo corno: era il segnale per la partenza, e l'inglese, dopo avermi ancora gridato dietro che avrebbe visto Beethoven prima di me, partì.
Dopo poche ore però, che anche io mi ero rimesso in viaggio, a piedi, lo ritrovai inaspettatamente sulla strada maestra. Si era rotta una ruota della sua carrozza; egli, tuttavia, con maesto sa tranquillità vi sedeva ancora dentro, il suo servitore dietro, benché la carrozza pendesse tutta da una parte. Venni a sapere che aspettavano il ritorno del postiglione che era corso ad un paese abbastanza lontano a chiamare una fabbro ferraio. Aspettavano già da molto tempo, e siccome il servo non parlava l'inglese, decisi di recarmi io stesso a quel paesello onde sollecitare postiglione e fabbro. Trovai realmente il primo in un'osteria, dove, seduto, con dell'acquavite davanti a sé, non sembrava darsi gran pensiero dell'inglese; presto però condussi presso la diligenza rotta tanto lui che il fabbro. Il guasto fu riparato; l'inglese promise che mi avrebbe annunziato presso Beethoven - e proseguì il viaggio.
Quale non fu la mia meraviglia quando, il giorno dopo, lo raggiunsi di nuovo sulla strada! Questa volta però, senza ruota fracassata, se ne stava tranquillamente in mezzo al viale, leggendo un libro; parve contento quando mi vide venire innanzi per la mia via. - Ho aspettato qui già molte ore, - mi disse – perché mi sono avveduto di aver fatto male a non invitarla a venire in carrozza con me da Beethoven. Si va molto meglio che non a piedi. Venga in diligenza.
Rimasi nuovamente meravigliato. Per qualche istante fui davvero indeciso se dovessi accettare oppur no l'invito fatto; mi ricordai però tosto del voto che avevo fatto tra me, ieri, quando avevo veduto correre sulla strada la carrozza dell'inglese; avevo giurato che in ogni caso avrei compiuto il mio pellegrinaggio a piedi. Lo dichiarai ora ad alta voce e fu l'inglese che restò sorpreso a sua volta: non poteva comprendermi. Ripetè il suo invito, aggiungendo che mi aveva aspettato molte ore, benché avesse perduto già del tempo all'ultimo albergo per la riparazione completa della ruota rotta. Io rimasi fermo nel mio proposito, ed egli si rimise in viaggio, stupefatto.
In fondo provavo una specie di avversione segreta contro di lui, perché sentivo come un presentimento vago, che quell'inglese mi sarebbe stato causa ancora di gravi guai. Inoltre, la sua venerazione per Beethoven, come il proposito di farne la conoscenza, mi sembravano piuttosto un capriccio di un ricco e sportivo gentleman, anziché il bisogno profondo, sincero, di un'anima entusiastica. Onde preferivo quasi tenermene lontano per non contaminare la mia santa brama con la sua compagnia profana.
Ma come se il destino volesse prepararmi ai pericolosi vincoli che ancora dovevano legarmi a questo gentleman, lo incontrai un'altra volta alla sera dello stesso giorno, fermo dinanzi ad una locanda, ad aspettarmi, come pareva. Perché stava seduto all'indietro nella sua carrozza e mi guardava incontro lungo la strada. - Sir. - mi disse, quando fui giunto abbastanza vicino – la ho aspettata di nuovo molte ore. Vuole venire in diligenza con me da Beethoven?
Questa volta alla mia sorpresa si unì un segreto terrore. Non potevo spiegarmi questa notevole tenacia nel volermi servire, altrimenti che col pensare che l'inglese, accortosi della sempre crescente mia avversione per lui, volesse ora importunarmi a tutti i costi, per mi arovina. Con palese ripugnanza declinai un'altra volta l'invto. Allora esclamò superbamente: - Goddam! Ella apprezza ben poco Beethoven. Io lo vedrò presto.
E partì rapidamente.
Fu quella infatti l'ultima volta che mi ritrovai con questo figlio insulare nel mio lungo viaggio a Vienna. Finalmente posi il piede sul suolo di questa città; il fine del mio pellegrinaggio era ragginto. Con quali sentimenti entrai in questa Mecca della mia fede! Ogni fatica del lungo e difficoltoso viaggio era già stata dimenticata; ero alla meta, tra le mura che racchiudevano Beethoven.
Ero troppo commosso per poter pensare subito alla esecuzione del mio intento. Mi informai intanto dell'abitazione di Beethoven, ma solo per alloggiarmi nelle sue vicinanze. Quasi dirimpetto alla casa in cui abitava il maestro, si trovava un albergo non troppo elegante; affittai una piccola cameretta al quinto piano e mi preparai là al più grande avvenimento della mia vita, ad una visita a Beethoven.
Dopo essermi riposato per due giorni, nei quali avevo digiunato e pregato, senza aver visitato più da vicino vienna, mi feci coraggio, lasciai l'albergo e mi recai obliquamente di faccia, verso la memorabile casa. Mi fu detto che Beethoven era uscito. Ne fui sinceramente lieto, perché avevo così tempo di raccogliermi meglio, e maggiormente. Ma poiché, nel corso della giornata mi fu data per quattro volte la medesima risposta, e cioè con un certo tono di voce alterato, crescente, ritenni quello un giorno sfortunato e rinuncia, contrariato, alla mia visita.
Ritornando all'albergo, fui salutato da una finestra del primo piano con alquanta cordialità dal mio inglese. - Ha visto Beethoven? - mi gridò da sopra.
 - Ancora no: non era in casa – risposi, stupefatto del nuovo incontro con lui.
Sulla scala mi venne incontro e mi obbligò con notevole affabilità ad entrare nel suo salotto. - Caro signore. - disse – io la ho già veduta andare oggi cinque volte alla casa di Beethoven. Io sono già qui da molti giorni, ed ho preso alloggio in questo brutto albergo per essere vicino a Beethoven. Ma creda, è molto difficile di parlare con Beethoven: questo gentleman ha molti capricci. Sul principio sono andato da lui sei volte, e sempre fui rimandato indietro. Adesso mi alzo ogni mattina assai presto e mi seggo alla finestra sino a tarda sera per vedere quando esce Beethoven. Sembra però che quel gentleman non esca mai. - E così lei crede che Beethoven sia stato in casa anche oggi e che non mi abbia voluto ricevere? - domandai angosciato.
 - Ma naturalmente, non ho voluto ricevere né lei né me. E ciò mi è molto sgradevole, perché sono venuto, non per conoscere Vienna, ma Beethoven.
Questa fu per me una notizia ben triste. Malgrado tutto ritentai la mia fortuna il giorno seguente, ma di nuovo invano – le porte del paradiso erano chiuse per me.
Il mio inglese, che dalla finestra osservava sempre con più viva attenzione i miei tentativi infruttuosi, si era intanto accertato, con informazioni assunte, che le camere di Beethoven non davano sulla strada. Ne fu molto contrariato, ma rimase oltre ogni limite tenace.Invece la pazienza mia fu presto esaurita; e davvero ne avevo più ragione di lui; una settimana era trascorsa a poco a poco, senza che io avessi raggiunto il mio scopo, e gli introiti dei miei galoppi non permettevano assolutamente un prolungato soggiorno a Vienna. Adagio adagio cominciai a disperare.
Confidai le mie sofferenze al padrone dell'albergo ove stavo. Questi sorrise e promise di indicarmi la causa della mia mala sorte se gli giuravo di non dir nulla all'inglese. Con un nero presentimento della stella fatale che mi sovrastava, giurai il patto richiesto. - Deve sapere – cominciò allora l'oste leale – che vengono qui molti inglesi per vedere e per conoscere il signor von Beethoven, ed egli ha una tale stizza contro la sfacciata indiscrezione di questi signori, che rende assolutamente impossibile a qualsiasi forestiere di giungere sino a lui. E' un signore singolare e bisogna scusarlo. Questo naturalmente giova assai al mio albergo, perché, di solito, è molto frequentato da inglesi, i quali, per la difficoltà di poter parlare al signor Beethoven, sono costretti a rimanere miei per un tempo molto maggiore di quanto non resterebbero in caso diverso. Ma poiché ella mi promette di non scacciare questi signori, spero di trovarle un mezzo con il quale ella potrà avvicinare il signor Beethoven.
Ah, era confortante! Dunque non potevo raggiungere il mio ideale, perché io, povero diavolo, passavo per inglese! Oh, il mio presentimento era più che giustificato; quell'inglese era la mia rovina! - All'istante volevo lasciare quell'albergo, perché indubbiamente in casa di Beethoven tutti quelli che vi stavano erano considerati come inglesi e solo per quello ero già condannato. Tuttavia la promessa dell'albergatore, di procurarmi un'occasione per vedere e per parlare a Beethoven, mi trattenne. L'inglese, che io ora aborrivo nell'intimo cuore, aveva nel frattempo tentato ogni sorta di intrighi e di corruzioni, ma sempre senza risultato.
E passarono così di nuovo più giorni infruttuosi, durante i quali diminuiva a vista il reddito dei miei galoppi, quando, infine, l'oste mi confidò che non potevo fallire di vedere Beethoven, se mi recavo ad un certo giardino, dove egli soleva recarsi quasi giornalmente ad una data ora. In pari tempo ebbi dal mio consigliere alcuni dettagli infallibili sull'aspetto esterno del grande maestro, dettagli che mi dovevano render possibile di riconoscerlo. Mi fu però impossibile di trovare Beethoven mentre usciva, perché lasciava la sua dimora regolarmente per una porticina posteriore; quindi non mi restò che il giardino. Purtroppo cercai il maestro, tanto quel giorno che i due susseguenti, invano. Finalmente il quarto, mentre all'ora solita volgevo di nuovo i miei passi al fatale giardino, dovetti accorgermi con somma disperazione che l'inglese mi seguiva, accuratamente e con diffidenza, da lontano. L'infelice, appostato continuamente alla sua finestra, non si era lasciato sfuggire che giornalmente, ad una data ora, uscivo nella medesima direzione; ciò lo aveva colpito, e supponendo subito che avessi scoperto una traccia per rinvenire Beethoven, aveva stabilito di trar profitto da questa mia probabile scoperta. Egli stesso mi narrò tutto con la massima franchezza, dichiarando in pari tempo che intendeva seguirmi dappertutto. Inutili furono i miei sforzi per ingannarlo, per fargli credere che unico mio obiettivo era quello di recarmi ad un volgare giardino pubblico, per ragioni di salute; gardino che mi sembrava molto, troppo unfashionable per essere onorato dalla visita di un gentleman suo pari; egli rimase fermo nel suo proposito ed io non potei che maledire il mio destino. Alla fine tentai anche la scortesia e cercai di liberarmene con sgarbatezza; ben lungi però dal prendersela per ciò, si accontentò di un docile sorriso. La sua idea fissa era: di vedere Beethoven; di tutto il resto non gli importava.
E realmente, doveva proprio accadere quel giorno che, per la prima volta, mi si presentasse innanzi agli occhi il grande, il sommo Beethoven. Nulla può quantificare la mia commozione, e insieme anche la mia rabbia, quando seduto accanto al mio gentleman, vidi avvicinarsi l'uomo, la cui persona, i cui connotati rispondevano perfettamente alla descrizione che l'oste mi aveva fatto del maestro. Il lungo soprabito turchino, i capelli arruffati, grigi; quei lineamenti e quell'espressione del volto, come mi erano rimasti sì a lungo impressi nella mente dopo averne ammirato una volta un buon ritratto. Era impossibile sbagliare: al primo istante lo avevo riconosciuto! Con rapidi e corti passi ci passò dinnanzi; sorpresa e devozione mi immobilizzavano i sensi.
L'inglese non perdette un solo dei miei movimenti; con sguardo curioso aveva osservato il personaggio che era passato e che si ritraeva ora nel canto più remoto del giardino, a quell'ora poco frequentato; si faceva indi portare del vino, e rimaneva per qualche tempo come assorto in pensieri. Il mio cuore, che palpitava forte, mi disse: - E' lui! - Dimenticai per qualche momento il mio vicino, e contemplai con occhio avido e con indicibile emozione quell'uomo, il cui genio dominava esclusivamente tutti i miei pensieri e sentimenti, dacché avevo imparato a pensare ed a sentire. Involontariamente cominciai a parlare a bassa voce fra me e caddi in una specie di monologo, che chiusi con le purtroppo significanti parole: - Beethoven, sei dunque proprio tu che io vedo?
Nulla sfuggì al mio terribile vicino che, chinato su di me, aveva ascoltato, rattenendo il respiro, il mio sussurrare. Quando, di soprassalto, fui strappato dalla mia profonda estasi con le parole: - Yes! Quel gentleman è Beethoven! Andiamo subito a presentarci a lui!
Esterrefatto ed indignato, ritenni per il braccio il maledetto inglese. - Che cosa vuol fare? - gridai. - Ma ci vuol proprio compromettere? Come! Qui, in questo luogo, così, senza osservare le più elementari regole della convivenza?
 - Oh, - replicò – questa è un'occasione eccellente, non sarà facile trovarne una migliore.
In ciò dire estrasse da una delle sue tasche una specie di quaderno da musica e silevò per correre diritto verso il personaggio dal soprabito turchino. Fuori di me, afferrai il forsennato per le falde dell'abito e gli gridai con violenza: - Ma che lo ha preso il diavolo?
Tuttavia questa scena aveva attirato l'attenzione dello straniero. Con un senso sgradevole sembrò indovinare che era lui l'oggetto della nostra agitazione, onde vuotò in furia il suo bicchiere e si alzò per andarsene. Ma non appena se ne fu accorto l'inglese, si liberò da me con una forza tale da lasciarmi in mano una delle falde del suo abito, e si precipitò incontro a Beethoven. Questi cercò di scansarlo; l'indegno però più svelto, gli fece un magnifico inchino secondo le regole della ultima moda inglese e gli si rivolse con le seguenti parole: - Ho l'onore di prentarmi al celeberrimo compositore ed onorevolissimo Beethoven.
Non gli fu d'uopo di aggiungere altro, perché già alle prime parole Beethoven, dopo aver gettato uno sguardo su me, si era volto dall'altra parte con un rapido salto laterale ed era sparito con fulminea velocità dal giardino. Cionondimeno l'invulnerabile britanno era proprio sul punto di rincorrere il fuggiasco, quando con furibonda mossa, mi attaccai all'ultima falda del suo abito. Alquanto sorpreso, si fermò e disse con tono singolare: - Goddam! Quel gentleman meriterebbe di essere un inglese. E' un uomo molto molto grande, e non tarderò a farne la conoscenza.
Rimasi pietrificato;quest'orribile avventura mi distruggeva ogni speranza di vedere esaudito il più caldo desiderio del mio cuore.
Ed in realtà compresi come da ora innanzi ogni passo per avvicinare Beethoven in un modo comune sarebbe riuscito infruttuoso. Date poi le mie condizioni finanziarie, dissestate completamente, non mi rimaneva che decidere, se dovevo intraprendere subito, e senza aver raggiunto nulla, il viaggio di ritorno, o se dovevo tentare un ultimo e diperato passo per arrivare alla meta. Al primo pensiero mi sentii rabbrividire sino alle ossa. E davvero, dopo essere pervenuto così vicino alle porte del più alto santuario, come era possibile vedersele chiudere per sempre, senza sentirsi annientato? Volli quindi, prima di sacrificare la salvezza dell'anima mia, tentare un ultimo passo disperato. Ma quale doveva essere, quale, la via da prendere? Invano mi scervellai fino all'esaurimento; non riuscivo ad escogitare qualcosa di utile! Ah, ogni mia forza inventiva era fiaccata; né alla mia immaginazione sovraeccitata si presentava altro, se non il ricordo di quanto avevo dovuto soffrire là, in quel giardino, mentre tenevo in mano la falda del tremendo inglese. Lo sguardo traverso, che Beethoven aveva rivolto a me, infelice, in quella catastrofe orrenda, non mi era sfuggito; sentivo anzi che cosa voleva dire quello sguardo: mi aveva fatto inglese!
Che fare ora per eludere i sospetti del maestro? Tutto stava nel fargli sapere che ero una semplice anima tedesca piena di povertà terrestre, ma di entusiasmo celeste.
E così, finalmente, decisi di vuotargli il cuore, di scrivergli. Ciò fecei. Scrissi, raccontando brevemente la storia della mia vita, come ero diventato musicista, come lo veneravo, come bramavo di conoscerlo, come avevo sacrificato due anni per farmi un nome di compositore di galoppi, come avevo intrapreso e compiuto il mio pellegrinaggio, di quanti guai mi era stato causa l'inglese e in che straziante situazione mi trovavo ora. Mentre da un lato sentivo alleggerirsi sensibilmente il cuore man mano che enumeravo le mie peripezie, venni acquistando anche una certa confidenzialità; intrecciai nela mia lettera dei rimproveri schietti ed abbastanza forti per la ingiusta crudeltà con la quale il maestro aveva trattato me disgraziatissimo. Con vero entusiasmo chiusi poi quella lettera e mi sentii addirittura mancare la vista quando scrissi l'indirizzo: “Al signor Ludwig van Beethoven”. Recitai ancora una silenziosa preghiera e lasciai la lettera all'abitazione di Beethoven.
Quando, pieno di entusiasmo, ritornai all'albergo, - oh, perché dovevo trovarmi anche ora dinnanzi agli occhi il terribile inglese?Dalla sua finestra aveva osservato anche quest'ultima mia gita, aveva letto nei miei lineamenti la gioia della speranza, e ciò bastava per lasciarmi cadere ancora in suo potere. E infatti mi fermò per le scale con la domanda: - Buone speranze? Quando vedremo Beethoven?
 - Mai, mai! - gridai al colmo della disperazione. - Beethoven non vuol rivedere lei mai più in vita sua! Mi lasci, orribile uomo, noi non abbiamo nulla in comune!
 - Ben abbiamo in comune qualcosa, - rispose con sangue freddo. - Dov'è la falda del mio abito, Sir? Chi l'ha autorizzato a strapparmela con violenza? Sa ella che è colpa sua se Beethoven serba un contegno tale verso di me? Come poteva egli trovare conveniente di intrattenersi con un gentleman che aveva una falda sola?
Fuori di me nel veder scaricata sulle mie spalle la colpa, replicai stizzito: - Signore, la falda le sarà restituita; possa ella conservarla a vergognoso ricordo del modo in cui ella ha offeso il grande Beethoven, ed ha mandato in rovina un povero musicista! Stia bene, voglia il Cielo che non ci vediamo mai più!
Tentò di rattenermi per calmarmi, assicurandomi che possedeva ancora molti abiti nelle migliori condizioni; gli volessi solo dire quando Beethoven intendeva di riceverci. Senza prestargli ascolto, corsi al mio quinto piano: là mi chiusi in camera ad aspettare la risposta di Beethoven.
Non posso descrivere la gioia, tutto quello che avvenne in me quando, realmente, dopo un'ora, mi fu portato un piccolo pezzo di carta da musica su cui stava scritto con mano fugace:
“Voglia scusarmi, signor R..., se la prego di venirmi a trovar solo domani mattina, essendo oggi occupato per dover portare alla posta della musica. Domattina l'aspetterò. - BEETHOVEN”.
Dapprima caddi in ginocchio e ringraziai il Cielo per questo favore straordinario; i miei occhi si offuscarono di lacrime sincere. Da ultimo però il mio sentimento proruppe in pazza gioia: saltai in piedi e mi misi a ballare come un forsennato nella mia piccola stanza. Non so bene che cosa ballassi, ma mi ricordo che ad un tratto mi accorsi con somma vergogna che vi stavo fischiando uno dei miei galoppi. Questa scoperta rattristante mi ricondusse in me. Lasciai la cameretta, l'albergo, e mi gettai inebriato per le vie di Vienna.
Dio mio, i guai sofferti mi avevano fatto dimenticare assolutamente che mi trovavo a Vienna. Come mi seduceva adesso l'allegro movimento degli abitanti di questa città imperiale! Ero in uno stato d'animo entusiastico e vedevo tutto con occhi entusiastici. La sensualità piuttosto superficiale dei viennesi mi appariva ora come rigogliosa freschezza di vita; la spensierata corsa al piacere, cui si avviavano senza molto discernimento, mi si presentava come schietta sensibilità per ogni bellezza. Mi procurai i cinque avvisi teatrali giornalieri. Santi Numi! Su uno di essi vidi annunciato: “Fidelio, opera di Beethoven!”
Ah, dovevo recarmi a teatro ad ogni costo; potevano gli introiti dei galoppi anche esserne ridotti agli estremi, dovevo andare a teatro! Proprio, quanto fui giunto nella platea, cominciava il preludio. Era quella la rielaborazione dell'opera che prima sotto il titolo di Eleonora aveva fatto fiasco, ad onore e gloria del colto pubblico viennese. Anche sotto questa seconda forma non avevo mai inteso quell'opera; si pensi quindi alla felicità che provai nell'udire qui, per la prima volta la meravigliosa novità. Una donna assai giovane dava la Eleonora; ma già in tenera gioventù sembrava che avesse accolto in sé il genio di Beethoven. Con qual fuoco, con qual poesia, con quanto trasportoella rappresentava quella donna straordinaria! Si chiamava Wilhelmine Schroeder. E quest'artista si è guadagnato il merito grande di aver rivelato al pubblico tedesco l'opera di Beethoven, e realmente quella sera vidi anche i superficiali viennesi trasportati dal più caldo entusiasmo. Per conto mio, mi si era schiuso addirittura il paradiso; ero beatificato e assorto in adorazione del genio che me – come Florestano – aveva condotto, dalla notte e dalle catene, alla luce ed alla libertà.
Né potei dormire per tutta la notte seguente. Quanto avevo sentito poco prima, e quanto mi aspettava l'indomani, era troppo, troppo, perché mi fosse riuscito d'abbandonarmi tranquillo al sonno. Vegliai, sempre fantasticando, e mi preparai a comparire innanzi a Beethoven. Finalmente apparve il nuovo giorno; con impazienza attesi l'ora che conveniva ad una visita mattutina – suonò anche essa e mi avviai. Mi stava dinnanzi l'avvenimento più importante della mia vita e tal pensiero mi faceva tremare di esaltazione.
Ma dovevo sostenere ancora una dura prova.
Appoggiato con la massima flemma alla porta della casa di Beethoven, mi aspettava il mio demonio, l'inglese! Lo sciagurato aveva corrotto tutto l'universo, e quindi pure l'oste del nostro albergo; questi aveva letto la risposta di Beethoven prima ancora che l'avessi letta io, e ne aveva rivelato il contenuto al britanno.
Un freddo sudore mi coprì alla vista di lui; ogni poesia, ogni celeste emozione svanì; ero di nuovo in suo potere. - Venga! - cominciò il disgraziato. - Andiamoci a presentare a Beethoven!
Sul principio feci di tutto per salvarmi con una menzogna, dandogli ad intendere che non volevo affatto recarmi da Beethoven. Fu egli medesimo però che mi troncò subito ogni via di scampo, perché con gran sincerità mi narrò come era giunto ad impadronirsi del mio segreto, dichiarando recisamente di non volermi abbandonare prima che non fossimo di ritorno dall'aver visto Beethoven. Tentai allora di farlo desistere dal suo proposito, prima con le buone – invano! Montai sulle furie – invano! Alla fine sperai di sfuggirgli con la sveltezza delle mie gambe; come una freccia volai su per le scale e tirai come un forsennato il campanello. Ma non mi era stato ancora aperto, che già il gentleman era giunto sul pianerottolo ed aveva afferrato le falde del mio abito, dicendo: - Non cerchi di sfuggire! Io ho diritto alle sue falde e le terrò finché non staremo davanti a Beethoven.
Mi voltai inorridito e cercai di strapparmi alla sua stretta; di più, mi sentii proprio tentato a difendermi una buona volta per vie di fatto contro l'orgoglioso figlio della Gran Bretagna: - ma ecco che venne aperto l'uscio. La vecchia serva apparve e mostrò un volto abbastanza scuro al vederci in quella strana nostra situazione, con manifesto proposito di richiuderci subito la porta sul muso. Allora, nell'angoscia strema, gridai ad alta voce il mio nome e giurai di essere stato invitato dal signor Beethoven.
Tuttavia la vecchia rimase ancora dubbiosa, perché la vista dell'inglese sembrava destarle giustificati sospetti; quando il caso volle che ad un tratto comparisse Beethoven stesso, sulla soglia del suo gabinetto. Approfittando di questo momento, entrai rapidamente per dirigermi verso il maestro a presentare le mie scuse. Contemporaneamente però tirai in casa anche l'inglese, il quale mi teneva tuttora strettamente. Fedele al suo proposito, mi lasciò infatti solo quando stemmo di fronte a Beethoven. Mi inchinai confuso e balbettai il mio nome; quantunque non lo udisse certamente, pure sembrò capire che ero colui al quale aveva scritto. Mi invitò a passare nel suo studio, e, senza curarsi dello sguardo sorpreso di Beethoven, il mio compagno guizzo dietro in fretta.
Ero qui – nel santuario; però l'orribile imbarazzo in cui mi aveva posto l'inglese malaugurato mi rese impossibile quel raccogliemento intenso, benefico, che mi sarebbe stato necessario per godere degnamente della mia felicità. Né l'aspetto esterno di Beethoven era menomamente tale da ispirare coraggio e confidenza. Indossava con alquanto disordine una veste da camera e portava una fascia di lana rossa attorno al corpo; i lunghi capelli grigi e ruvidi gli stavano arruffati sul capo e l'espressione cupa e severa del volto non era assoltamente fatta per trarmi d'imbarazzo. Ci sedemmo ad una tavola, che era coperta di carte e di penne.
La situazione era penosa; nessuno parlava. Evidentemente Beethoven era seccato di aver ricevuto due invece di uno.
Finalmente incominciò col chiedermi con voce grossa: - Ella viene da L...?
Volevo rispondere; egli però mi prevenne col mettermi dinnanzi un foglio di carta ed una matita, soggiungendo: - Scriva perché non sento.
Sapevo della sordità di Beethoven, e mi vi ero preparato. Cionondimeno provai uno strazio indicibile al cuore quando, da quella voce grossa e rotta, intesi quel: “non sento!” Dover stare al mondo senza gioia e povero; sapere l'esaltazione unica nella potenza dei suoni, e dover dire: “non sento!” Ed all'istante mi fu chiara la ragione dell'aspetto esterno di Beethoven, del profondo cordoglio delle sue guance, del fosco rancore del suo sguardo, dell'ostinatezza serrata delle sue labbra: - egli non udiva!
Confuso e senza sapere che cosa, scrissi una preghiera affinché volesse scusarmi, ed una breve spiegazione delle circostanze che mi facevano comparire in compagnia dell'inglese. Costui, nel frattempo, se ne stava seduto muto e soddisfatto, dirimpetto a Beethoven, che, dopo aver letto le mie parole, gli si rivolse alquanto bruscamente, domandandogli che cosa desiderasse da lui. - Ho l'onore... - incominciò il britanno.
 - Non capisco quello che dice! - gridò Beethoven troncandogli con violenza l'esordio. - Non sento, e non posso neanche parlare molto... Scriva che cosa vuole da me.
L'inglese riflettè un istante tranquillamente, indi cavò di tasca un elegante quaderno di musica e mi disse: - Va bene. Scriva: “Io prego il signor Beethoven a voler rivedere le mie composizioni; se vi è qualche punto che non gli piacerà, avrà la bontà di farvi una croce”.
Trascrissi letteralmente il suo desiderio nella speranza di liberarmene una buona volta; e così fu infatti. Dopo che Beethoven ebbe letto, depose con un sorriso singolare le composizioni dell'inglese sul tavolo, annuì brevemente, e disse: - Penserò io a rimandargliele.
Il mio gentleman ne fu pienamente soddisfatto, si alzò, fece un inchino specialmente magnifico e si congedò. Emisi un profondo sospiro: era andato via.
Solo adesso mi sentii nel santuario. Perfino i lineamenti di Beethoven si rischiararono palesemente; mi guardò qualche istante tranquillo e cominciò quindi: - Quell'inglese lo avrà afflitto non poco, non è vero? Si consoli pensando a me; questi inglesi viaggiatori mi hanno tormentato fino al sangue. Vengono oggi a vedere un povero musicista come andranno domani a vedere una bestia rara. Mi dispiace per lei, di averla scambiata con uno di quelli... Ella mi scrive che è contento delle mie composizioni. Il che mi è caro, perché oramai faccio più poco conto che le mie cose piacciano alla gente.
Il tono confidenziale delle sue parole mi liberò tosto d'ogni timidezza rimasta ancora, un brivido di gioia mi attraversò a quel semplice discorso. E scrissi che davvero non ero io il solo che fosse acceso da sì focoso entusiasmo per ognuna delle sue creazioni, e che bramavo nulla più ardentemente che, per esempio, di poter procacciare alla mia città natia la fortuna di vederlo una volta tra le sue mura: si sarebbe allora facilmente persuaso dell'effetto straordinario che producevano là, sull'intero pubblico, le sue opere. - Credo bene – replicò Beethoven – che le mie composizioni siano più adatte per la Germania settentrionale. I viennesi spesso mi irritano; sentono giornalmente troppa roba cattiva per essere disposti sempre a mettersi con serietà a qualcosa di serio.
Volevo contraddirlo in ciò e gli dissi che avevo assistito il giorno prima alla rappresentazione del Fidelio, che era stato accolto dal pubblico viennese col più sincero entusiasmo. - Uhm, uhm! - brontolò il maestro: - Fidelio! - Io so però che quei signori adesso battono le mani solo per vanità, perché immaginano che nella rielaborazione di quell'opera io abbia seguito senz'altro i loro preziosi consigli. Ora vogliono rimunerarmi della mia fatica e gridano: bravo! E' un popolo d'indole bonaria, e poco dotto, ed è per questo che sto più volentieri, tra loro che tra persone sapienti. Le piace il Fidelio come è ora?
Gli comunicai allora qual impressione avesse lasciato in me la rappresentazione del giorno precedente, ed osservai che, con le parti aggiunte, l'insieme aveva mirabilmente guadagnato. - Che lavoro noioso! - riprese Beethoven. - Io non sono compositore di opere;almeno non saprei per qual teatro del mondo mi farebbe piacere di scrivere di nuovo un'opera! Se volessi scrivere un'opera che fosse secondo l'animo mio, la gente se ne scapperebbe; perché non vi sarebbero né arie, né duetti, né terzetti, niente di tutta quella roba con cui rappezzano oggigiorno le opere; e quello che io comporrei, non lo vorrebbe cantare alcun artista e non lo vorrebbe ascoltare nessun pubblico. Conoscono tutti soltanto la menzogna risplendente, la stoltezza brillante, la noia inzuccherata. Chi componesse un vero dramma musicale, passerebbe per matto, e lo sarebbe anche in realtà, qualora non serbasse per sé una simil cosa, ma la volesse presentare alla gente.
 - E in qual maniera bisognerebbe mai mettersi al lavoro – domandai ansioso – per riuscire a comporre un tal dramma musicale?
 - Come faceva Shakespeare, quando scriveva le sue tragedie – fu la risposta quasi violenta; poi continuò: - Chi deve preoccuparsi per aggiustare, a donne con voce passabile, ogni sorta di scherzi, mediante i quali esse possano procacciarsi dei “bravo” e degli applausi, dovrebbe piuttosto diventare sarto di dame parigine, ma non compositore drammatico. - Io, per parte mia, non sono oramai fatto per tali giuocarelli. E so molto bene che le persone istruite credono per questo che io mi intenda, è vero, di musica istrumentale, ma che non riuscirei mai a rendermi padrone della musica vocale. Hanno infatti ragione, poiché per musica vocale intendono solo musica di opere, e dal rendermi mai padrone di una stupidaggine tale, me ne guardi il Cielo!
Mi permisi a questo punto la domanda, se credeva che qualcuno, dopo aver inteso la sua Adelaide, osasse ancora di mettere in dubbio la sua somma maestria anche nel campo della musica vocale. - Ebbene, - rispose dopo una breve sosta – l'Adelaide e simili sono poi infine delle minuzie, che cadono in mano ai musicisti di professione abbastanza presto per poter servir loro ad applicarvi i loro ottimi giuochetti. Quello che non capisco è, perché la musica vocale non possa, altrettanto bene, che la musica istrumentale, prestarsi a formare un genere grande, serio, che, specialmente nell'esecuzione, fosse rispettato dai cantanti egualmente come lo si pretende in una sinfonia dall'orchestra? Non per nulla esiste la voce umana! Anzi, è un organo sonoro di gran lunga più bello e più nobile che ogni istrumento dell'orchestra. Perché non si dovrebbe riuscire ad applicarla in modo altrettanto autonomo e indipendente che quella? E quali risultati del tutto nuovi non si otterrebbero allora! Perché l'indole stessa della voce umana, così diversa per sua natura dalla particolarità degli strumenti, si presta a venir elevata e fissata in modo tutto speciale generando le più svariate combinazioni. Negli strumenti sono rappresentati gli organi primi della creazione e della natura; quello che essi esprimono, non potrà mai esser determinato e stabilito chiaramente, perché essi riproducono i sentimenti primi, come essi si formarono dal caos della prima creazione, quando forse non vi erano ancora neanche uomini capaci di accoglierli nel loro cuore. Ben diverso è lo spirito della voce umana; questa rappresenta il cuore umano, di cui esprime il sentimento finito, individuale. Quindi il suo carattere rimane limitato, ma determinato e palese. Si provi a mettere insieme adesso tali due elementi, ad unirli! Si contrapponga ai sentimenti primitivi, selvaggi, che vanno vagando verso l'infinito, e che sono rappresentati dagli istrumenti, la sensazione palese, determinata, del cuore umano, rappresentata dalla voce. L'aggiunta di questo secondo elemento influirà beneficamente e rappacificante sul conflitto dei sentimenti primitivi, darà al loro torrente un corso determinato, compatto; il cuore umano stesso poi, nel mentre che accoglierà in sé quelle sensazioni primitive, ne sarà infinitamente rafforzato ed ampliato, capace di sentire ora chiaramente, trasformato così in intelligenza divina, il presentimento, dapprima vago, del sublime.
Qui Beethoven si fermò qualche istante come esausto. Indi proseguì con un leggero sospiro: - Vero è che, nel tentativo di risolvere questo problema, si incontrano vari ostacoli; per far cantare occorrono le parole. E chi mai sarebbe capace di esprimere con parole la poesia profonda che starebbe a fondamento di una riunione tale di tutti gli elementi? L'arte poetica verrà a mancare là, ove le parole sono organi troppo deboli per un compito simile... Ella imparerà a conoscere presto una nuova mia composizione che le ricorderà quanto ho detto or ora. Si tratta di una sinfonia di cori. Le faccio ancora notare quanto mi riuscisse difficile di rimediare all'inconveniente dell'insufficienza dell'arte poetica cui mi rivolsi per averne aiuto. Finalmente decisi di servirmi del bell'inno dello Schiller: “Alla gioia”; è quella certo una poesia nobile ed ispirata, anche se è ben lungi dall'esprimere quello che, del resto, in tal caso, non possono esprimere versi al mondo.
Ancora oggi riesco appena a comprenderel'enorme fortuna, grazie alla quale Beethoven medesimo, con questi suoi cenni, mi guidava alla piena intelligenza della sua ultima e gigantesca sinfonia che allora doveva essere appena terminata, ma che nessuno ancora conosceva. Gli espressi la mia gratitudine col più grande entusiasmo per questo favore, certamente raro. Nelo stesso tempo li manifestai la deliziosa sorpresa che avevo voluto prepararmi con la notzia che presto si sarebbe potuto salutare l'apparizione di un nuovo e grandioso suo lavoro. Mi erano salite le lacrime agli occhi – avrei voluto inginocchiarmi innanzi a lui.
Beethoven parve scorgere la mia commozione intima. Mi guardò con un sorriso, tra il malinconico ed il motteggiatore, e disse: - Ella mi potrà difendere quando si parlerà della mia nuova composizione. Si ricordi di me: le persone istruite mi prenderanno per matto, almeno mi faranno passare per tale. Ma Ella vede bene, signor R..., che non sono ancora proprio pazzo, anche se, per il resto, mi sentirei infelice abbastanza per esserlo. La gente pretende da me che io, povero sordo, debba avere dei pensieri del tutto particolari, - che non mi può esser possibile di comporre diversamente da quello che sento. E che per l'appunto non mi riesce a pensare ed a sentire le loro belle cose – soggiunse ironicamente: ecco la mia disgrazia.
Con queste parole si alzò e si mise a passeggiare s e giù per la stanza, a passi rapidi e corti. Profondamente commosso ed assorto in venerazione, com'ero, mia alzai io pure; sentivo che tremavo. Mi sarebbe stato impossibile di continuare più oltre la conversazione, né con i gesti, né per iscritto. Capivo che adesso era giunto il momento in cui la mia visita poteva coinciare a divenire di incomodo al maestro. Troppo meschino mi sembrava lo scrivere una parola di ringraziamento e di congedo, anche se il mio stato d'animo avesse permessa un'espressione degna; mi contentai di prendere il cappello, farmi innanzi a Beethoven e lasciargli leggere nei miei occhi quello che avveniva dentro di me.
Sembrò capirmi: - Vuole andarsene? - chiese. - Rimarra ancora qualche tempo a Vienna?
Gli scrissi che col presente viaggio non avevo avuto altra mira che fare la conoscenza sua; e che, essendosi egli degnato di concedermi un'accoglienza così straordinaria, io mi ritenevo più che felice di poter considerare raggiunto il mio ideale, e che mi sarei incamminato l'indomani per il ritorno.
Sorridendo disse: - Ella mi ha scritto in che modo si è procurato il denaro per questo viaggio: - dovrebbe rimanere a Vienna e comporre galoppi – qui val molto questa merce.
Spiegai che, quanto a quello, era finito per me, non sapendo altra cosa al mondo degna di un simile sacrificio. - Eh via! - replicò egli; - è da vedersi! Anche io, vecchio insensato, me la passerei assai meglio, se scrivessi galoppi: continuando come finora, sarò sempre in bisogno. - Viaggi felicemente, - proseguì – pensi a me e si consoli in ogni contrarietà con me.
Commosso e con le lacrime agli occhi stavo per congedarmi quando esclamò: - Un momento! Liquidiamo l'inglese musicale! Guardiamo un po' dove devono andare le croci!
Nel ciò dire prese il quaderno del britanno e lo scorse sorridendo, indi ne riunì di nuovo accuratamente i fogli, li ripose in un involucro di carta, afferrò una grossa penna e disegnò obliquamente su tutta la copertina una croce colossale. Quindi mi consegnò l'involto dicendo: - Voglia avere la gentilezza di rimettere al fortunato il suo capolavoro. E' un asino: eppure lo invidio per le sue orecchie lunghe! - Stia bene, mio caro, e mi serbi affetto!
E con questo mi congedò. Commosso lasciai la sua camera e la casa.

***
All'albergo trovai il servo dell'inglese che accomodava nella carrozza il bagaglio del suo padrone. Anche la sua meta era dunque raggiunta; dovetti confessare che anche lui aveva dimostrato della resistenza. Corsi alla mia cameretta e preparai pure ogni cosa per riprendere, il giorno dopo, il viaggio di ritorno. Mi venne da ridere forte quando osservai la croce sulla copertina che avvolgeva le composizioni dell'inglese. Tuttavia quella croce era un ricordo di Beethoven e mi rincresceva che avesse ad appartenere al cattivo demonio del mio pellegrinaggio. La mia risoluzione fu tosto presa. Tolsi la copertina, tirai fuori i miei galoppi e li involsi nel foglio condannante. Alinglese feci consegnare le sue composizioni, senza copertina, e vi unii una letterina in cui gli annnunziavo che Beethoven l'invidiava e che aveva dichiarato di non sapere dove poter applicare una croce.
Quando lasciai l'albergo, vidi salire in carrozza il mio sciagurato compagno. - Stia bene! - mi disse cordialmente. - Ella mi ha reso dei grandi sevigi. Mi è caro l'aver conosciuto il signor Beethoven. - Vuole venire con me in Italia?
 - Che cosa cerca là? - domandai invece io.
 - Voglio fare la conoscenza del signor Rossini, perché è un compositore molto rinomato.
 - Buona fortuna! - gridai. - Io conosco Beethoven, e per la mia vita mi basta!
Ci separammo. Gettai ancora uno sguardo desioso sulla casa di Beethoven, e mi incamminai verso nord, elevato e nobilitato nel cuore.
RICCARDO WAGNER


Fonte:
Una novella di Riccardo Wagner - Un pellegrinaggio da Beethoven.
Riccardo [Richard] Wagner
Nuova Antologia di Lettere, Scienze ed Arti, Anno XLII, (maggio-1905), pp. 81-97

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